Ci sono parole che sembrano appartenere al passato e che invece risuonano fortissime nel presente. Una di queste è galateo. Troppe volte lo si immagina come un insieme di regole rigide, obsolete, magari un po’ snob. Ma se ci fermiamo un istante, scopriamo che il galateo – quello autentico – è molto di più: è un codice silenzioso per comunicare rispetto, una coreografia fatta di attenzione, misura e ascolto. È una grammatica relazionale che ci permette di stare con gli altri con grazia, eleganza e umanità.
Nel mondo dell’ospitalità, dove ogni incontro può essere il primo e l’ultimo, e ogni gesto ha il potere di lasciare un segno, il galateo torna a essere centrale. Non come formalismo, ma come linguaggio gentile del prendersi cura. Saper accogliere, saper ascoltare, saper dire no con garbo e sì con entusiasmo. Saper gestire la diversità con empatia. Questi sono i nuovi fondamenti del lusso, che oggi si misura in relazioni più che in metri quadri.
Abbiamo chiesto a due figure d’eccellenza – Samuele Briatore, presidente dell’Accademia Italiana del Galateo, e Shubha Rabolli, vicepresidente della stessa Accademia ed esperta di multiculturalità – di raccontarci cosa significhi oggi riportare il galateo al centro dell’ospitalità. Ne sono nate due riflessioni preziose, per chi lavora nel settore e per chi crede che ogni gesto gentile sia un atto culturale e profondamente umano.

Samuele, oggi si parla spesso di galateo come di qualcosa di superato. Eppure, dietro ogni buona maniera c’è un desiderio di far star bene qualcuno. Cosa significa per te, oggi, rendere il galateo contemporaneo e vivo nel mondo dell’ospitalità?

“Oggi, parlare di galateo nel mondo dell’ospitalità significa restituirgli profondità e autenticità. Il galateo non è un insieme rigido di regole da osservare con timore, ma una forma culturale viva che ha sempre avuto la funzione di mediare i rapporti tra le persone, regolare le emozioni in pubblico e facilitare la convivenza. È una grammatica sociale che muta con i tempi, proprio come cambia il modo in cui ci relazioniamo agli altri.
Nella nostra epoca iperconnessa, in cui i confini tra pubblico e privato si sono fatti porosi e l’ospitalità si misura tanto nella dimensione fisica quanto in quella esperienziale, rendere il galateo contemporaneo significa anzitutto comprenderne l’anima: non l’ossessione per la forma, ma la cura dell’altro. Come mostrano i testi storici sul comportamento e l’educazione sentimentale – da Giovanni Della Casa ai galatei novecenteschi – l’obiettivo è sempre stato quello di coltivare una socialità elegante, fatta di gesti misurati, parole ponderate e attenzione all’effetto che si produce sull’altro.
Nel contesto dell’ospitalità, questo si traduce in uno stile relazionale che non ostenta ma accoglie, che non impone ma accompagna. Ogni dettaglio – un tono di voce gentile, un invito ben formulato, una tavola preparata con gusto – è un atto comunicativo che dice: “ti vedo, ti rispetto, ti voglio mettere a tuo agio”. La buona maniera, allora, non è una maschera, ma un gesto intenzionale di costruzione di fiducia.
Il galateo contemporaneo, se ben inteso, aiuta a rendere leggibili le emozioni, a canalizzarle nei contesti pubblici senza mortificarle. Come scrivo altrove, la buona educazione è anche una forma di normazione emotiva: ci insegna quando trattenere, quando lasciar trapelare, come manifestare gratitudine, attenzione, disaccordo senza ferire. Nell’ambito dell’ospitalità, questo significa creare ambienti in cui la persona non si sente giudicata ma accompagnata, non spettatrice passiva ma parte di una coreografia simbolica in cui ogni gesto ha valore.
Rendere il galateo vivo oggi significa anche aggiornarlo: riconoscere la pluralità culturale, la fluidità delle identità, l’ibridazione tra linguaggi. Ospitare qualcuno non è solo aprire una porta, ma saper accogliere sensibilità diverse, desideri differenti, linguaggi del corpo e della mente che richiedono ascolto più che istruzioni. È qui che il galateo ritrova la sua funzione più nobile: quella di essere una piattaforma di empatia strutturata, di estetica della relazione, di etica della presenza.
In un mondo spesso frettoloso e disattento, dove l’ospitalità rischia di ridursi a prestazione, il galateo ci ricorda che il modo in cui trattiamo gli altri è sempre anche il modo in cui costruiamo noi stessi. E che l’eleganza vera non è nella posa, ma nella disposizione interiore a far star bene chi ci è accanto.”
Shubha, a noi piace dire che “l’educazione è come se fosse la grammatica delle relazioni”: cosa ne pensi, soprattutto in un ambito – quello dell’ospitalità – sempre più multiculturale?

“Viviamo in un’epoca in cui le culture si sfiorano, si sovrappongono e spesso si incontrano in spazi inaspettati. L’ambito dell’ospitalità, oggi più che mai, si configura come un crocevia multiculturale, un luogo di contatto tra identità diverse. In questo contesto, l’educazione si rivela essere molto più di una convenzione sociale: è ciò che rende possibile l’incontro, una vera e propria grammatica delle relazioni umane.
L’affermazione secondo cui “l’educazione è la grammatica delle relazioni” non è una semplice metafora: come la grammatica organizza il linguaggio, così l’educazione struttura il modo in cui entriamo in relazione con l’altro. Essa stabilisce un codice condiviso che, seppur variabile nei contenuti da cultura a cultura, si fonda su principi antropologici ed etici universali.
L’antropologia culturale ci insegna che ogni gesto, anche il più semplice, ha un valore simbolico. Marcel Mauss, nel suo celebre Saggio sul dono, evidenzia come ogni atto apparentemente gratuito sia in realtà un veicolo di relazione. Allo stesso modo, l’educazione non è mai fine a sé stessa, ma è sempre un atto relazionale: essa costruisce un ponte, riconosce l’altro e precede il linguaggio verbale.
In un ambiente multiculturale, dove le regole del comportamento non sono scontate, il gesto educato si carica di una responsabilità ulteriore: deve riuscire a comunicare rispetto al di là delle differenze culturali.
Sebbene le norme di cortesia siano culturalmente variabili, esistono gesti e atteggiamenti che possono essere riconosciuti come universali o quasi-universali. Questi non derivano da una codifica normativa, ma da un’esperienza comune dell’umano. Clifford Geertz, interprete della cultura come “testo” da decifrare, ci invita a leggere i comportamenti nella loro profondità simbolica. In questa lettura, gesti come il sorriso, l’ascolto, la gentilezza e l’attenzione ai bisogni dell’altro emergono come elementi trasversali alle culture.
Accogliere veramente significa accettare l’imprevedibilità dell’altro, senza volerlo “addomesticare” o ricondurre a ciò che già conosciamo. L’educazione, in questo contesto, assume un significato radicale: diventa quasi uno spazio di negoziazione, luogo dove si costruisce un nuovo codice comune, non imposto ma condiviso.
Un professionista dell’ospitalità che opera in un contesto multiculturale deve dunque essere un traduttore simbolico: non solo colui che conosce le regole del servizio, ma colui che sa leggere e interpretare i bisogni impliciti, le differenze culturali, le sfumature del comportamento.
La capacità di creare un ambiente accogliente, rispettoso, e sensibile alla diversità è ciò che contraddistingue un autentico professionista dell’ospitalità.
In un mondo sempre più interconnesso ma anche frammentato, le buone maniere rappresentano il linguaggio comune che può unire senza annullare. È una grammatica invisibile, fatta di piccoli gesti che ci insegna a costruire relazioni sane anche in contesti di grande diversità.
In fin dei conti, come diceva lo scrittore Albert Camus, “non c’è che un solo dovere: quello di amare gli uomini”. E l’educazione, in tutte le sue forme, è forse il modo più concreto e quotidiano per farlo.”

Dietro ogni intervista, ogni storia raccontata con attenzione e ogni dettaglio curato con sensibilità, ci sono le ragazze della redazione di Lusso Gentile. Con garbo, passione e uno sguardo attento, sono loro a dare voce agli interpreti dell’ospitalità, ascoltando, approfondendo e restituendo racconti autentici.
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