Uno dei grandi dilemmi dell’ospitalità contemporanea riguarda il rapporto tra standard e autenticità. Troppo spesso si pensa che la ricerca di regole, protocolli e punteggi uccida la spontaneità e renda l’esperienza fredda, impersonale. Eppure, quando gli standard sono ben intesi, diventano strumenti di garanzia, non di rigidità: fissano un livello minimo di eccellenza, lasciando ampio spazio a quella dimensione umana che rende l’ospitalità viva e unica.
Nel dialogo con Diego Renda, Head of Training Strategy and Development per LQA, abbiamo esplorato questo confine sottile. Le sue riflessioni ci portano oltre i numeri e i protocolli, verso una comprensione più profonda della qualità: quella che non si misura solo in secondi, temperature o KPI, ma nella capacità di creare relazioni autentiche, personalizzate, irripetibili. LQA osserva da vicino i migliori hotel del mondo e ci ricorda che il lusso non è solo performance, ma è – ancora e soprattutto – un business “of people, for people”.

1. In un mondo che misura tutto con punteggi e KPI, qual è il confine tra standard e autenticità nell’ospitalità?
Nell’ospitalità, come in molti altri settori, c’è un grande malinteso: si pensa che gli standard siano il nemico dell’autenticità, e che la loro applicazione porti inevitabilmente a un’esperienza fredda e robotica.
La realtà è molto diversa. Gli standard non tolgono valore, ma fissano una soglia minima sotto la quale non si può parlare di eccellenza o di lusso. Ad esempio, è vero che uno standard può richiedere di accompagnare l’ospite in camera dopo il check-in, ma non stabilisce chi debba farlo o in che modo: questa scelta resta alla totale discrezione dell’hotel.
Lo stesso vale per i comportamenti verso l’ospite. Salutare e riconoscere chi entra è un requisito minimo, ma la forma di questo saluto — le parole, il tono, il linguaggio del corpo — è libera.
In altre parole, lo standard indica la direzione: “essere gentili con gli ospiti è un dovere”. Ma il modo in cui questa gentilezza si manifesta, che può assumere infinite forme, è lo spazio in cui l’autenticità prende vita.

2. Quali segnali vede oggi nei migliori hotel del mondo che dimostrano che la qualità non è più solo performance, ma anche cultura umana?
Il segnale è chiaro: la performance è ormai un elemento scontato. Puntualità, cortesia, pulizia: sono requisiti minimi che la clientela dà per certi. Nessuno resterebbe sorpreso se, in un grande hotel di lusso, il caffè arrivasse caldo e cremoso in meno di cinque minuti, servito da un vassoio e accompagnato da una selezione di zuccheri.
Tutto questo è la base del servizio di qualità. Ma non basta. Manca il calore, l’unicità che solo l’interazione umana può portare. Perché se il lusso è esclusività, oggi lo è nella misura in cui chi serve è unico: nella sua capacità di ascoltare, di capire, di anticipare, di essere, semplicemente, umano.
In un mondo dominato da automazione ed efficienza, il vero lusso è un contatto autentico con un altro essere umano. E i dati lo confermano ovunque: dopo anni di servizi impersonali e generici, siamo entrati nell’era del servizio individuale. O forse sarebbe meglio dire che ci siamo tornati. Alle origini, quando l’Head Concierge conosceva ogni ospite alla perfezione e per ciascuno aveva attenzioni diverse, personali, irripetibili.

3. Oggi si parla molto di soft skills: secondo lei, come possono essere misurate e integrate nel concetto di qualità dell’ospitalità?
La misurazione dei soft skills è tema complesso. Da parte dell’ospite quello che si ‘misura’ non è tanto la capacità ma l’esecuzione, perché in fondo è questo ciò che interessa. Altra cosa è invece la fase di recruitment, nella quale il soft skill dovrebbe essere ricercato e valutato, come elemento fondamentale della persona. Questo richiede molta conoscenza di sé da parte di chi seleziona, laddove il sé non è la persona ma l’azienda, la compagnia, l’hotel.
Sapere chi siamo per poter, di conseguenza, capire chi cerchiamo e quali caratteristiche vogliamo che abbiano è un esercizio che non sempre riesce. Eppure le compagnie che riescono a farlo riescono a formare una cultura umana che le rappresenta, offrendo di conseguenza un servizio che rispecchia valori e personalità ben definite. In questo non si deve cadere nell’errore di credere che esista un set di skills ottimale e che un test sia sufficiente a individuare le persone giuste. Né pensare che i soft skills siano una dote di natura e che non si possano insegnare, affinare, perfezionare.
Il punto cruciale è nel vecchio adagio secondo cui l’ospitalità è un business “of people, for people”. Il soft skill è, dunque, non soltanto utile ma necessario e imprescindibile, caratteristica fondamentale di una persona in quanto tale. Non elemento o risorsa (parole aberranti che sarebbe bene riconsiderare), ma essere umano, fatto di emozioni, sensibilità, pensiero.

Dietro ogni intervista, ogni storia raccontata con attenzione e ogni dettaglio curato con sensibilità, ci sono le ragazze della redazione di Lusso Gentile. Con garbo, passione e uno sguardo attento, sono loro a dare voce agli interpreti dell’ospitalità, ascoltando, approfondendo e restituendo racconti autentici.
No comments